domenica 5 maggio 2024

Romanzi eccellenti (meno uno) - 05 maggio 2024

Quattro buoni romanzi ed un quinto, quello che pensavo più ironico, il meno riuscito.

Sì, perché l’ultima prova di Recami con il ritorno dei “protagonisti della ringhiera” non mi ha convinto. Invece abbiamo due stranieri e due italiani che si stagliano “verso le alte vette”. C’è un romanzo iconico di Brautigan, c’è la fatica di Labatut intorno all’intelligenza artificiale. E per gli italiani, una riuscita prova (con qualche riserva) di Dario Ferrari ed un romanzo narrazione di Pier Vittorio Buffa, di cui leggerete per capirne i motivi della mia affezione.

Francesco Recami “Colpo grosso ai Frigoriferi Milanesi” Sellerio s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 29/08/2023 – I: 12/09/2023 – T: 13/09/2023] && +    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 321; anno: 2023]

Dopo aver fatto escursioni in altri possibili romanzi seriali, ecco che, seppur saltuariamente, Francesco Recami torna ai suoi personaggi di maggior successo, quelli della cosiddetta “Storie della Casa di Ringhiera”. Sono passati ben quattro anni dall’ultimo libro della serie, che, in un certo senso, sembrava quasi voler porre un termine a queste storie. Ma si sa, i personaggi sono tiranni, faticano a farsi lasciar andare. Fatica che si somma alle difficoltà di un autore a variare il copione su cui si sono inseriti.

È lo stesso Recami, infatti, che in un intervista confessa di aver avuto difficoltà nella scrittura di questo romanzo, prendendolo e lasciandolo, ingarbugliandolo e cercando di semplificarlo. Alla fine esce un romanzo con alcuni spunti, alcuni rimandi ed un tentativo di meta-testualità interessante ma non sempre ben congeniato.

La trama è semplice nella sua complessità: un gruppo di persone eterogeneo decide di effettuare una rapina in una struttura denominata “Frigoriferi Milanesi”, che non è altro che una vecchia “Fabbrica del Ghiaccio”, riconvertitesi in una struttura complessa comprendente anche dei sotterranei blindati, suddivisi in grandi caveaux, come cassette di sicurezza giganti. Il capo della banda di cui sopra, e di cui parleremo, è convinto, a torto o ragione, che in uno di questi depositi siano conservati oro ed altri oggetti preziosi che, in un romanzo precedente, una piacente signorina tedesca dovrebbe avergli rubato.

Vediamo fin dall’inizio che la banda ha visto e ben compreso la lezione del serial spagnolo “La casa di carta”, così che ognuno ha un suo soprannome: il Solista non può che essere il capo delle operazioni, con ai lati Piero che si dedica ai mezzi di trasporto, Faccia d’Angelo per lo sviluppo e l’utilizzo di apparecchiature elettroniche, nonché Renè che, in quanto più giovane, è preposto all’operazioni movimentate. A supporto, abbiamo la Mata Hari del gruppo, la signora Miciona, che si dedica alla ricerca di informazioni attraverso tutti i mezzi, leciti o illeciti, abbiamo la signorina Piccerella, che deve sfruttare le sue abilità di trasformismo, e la signorina Mantide, che, come dice il nome stesso, sarà la seduttrice del gruppo.

Dopo un inizio spaesante, anche se abbiamo qualche sospetto, il nostro gruppo di finti banditi, si rivela per quello che è. Nell’ordine di cui sopra, abbiamo i vari inquilini della casa di ringhiera: il centro dell’azione focalizzato su Amedei Consonni, con l’anziano ma sempre pronto alla guida Luis De Angelis, il giovane dedito all’azione Antonio, l’informatico che si era trasferito, l’anziana signorina Mattei-Ferri, l’amica e non solo di Amedeo, Angela Mattioli, con a corredo la figlia. Abbiamo anche dei caratteristi che entrano nel coro generale pur non essendo in primo piano nell’azione. Servono a dare tocchi di colore alla vita milanese, come gli Scemaghi, la famiglia devota a comportamenti altamente salutari, o come le amiche romagnole, giovani, scapestrate e sempre pronte al riso.

Non è particolarmente utile, per i nostri fini, seguire le modalità che i nostri attuano per reperire le informazioni necessarie per entrare nei caveaux, né serve sapere se troveranno quello che cercano, se la tedescona Yutta c’entra o meno, se i cinesi del pian terreno daranno una mano. E tanti altri punti interrogativi, che potete deliziarvi andandoli a leggere.

Dato che quello che interessa a Recami, e che serve a portare avanti la trama, è la trovata, che esce fuori dopo i tre quarti del testo. I vari personaggi della trama non sono sempre in primo piano, ed allora, con una trovata pirandelliana alla “sei personaggi”, ne seguiamo l’uscita di scena, quando appunto non sono in primo piano, ed il loro parcheggiarsi in uno spazio sospeso, che l’autore battezza “Nonmondo”. Da quel punto in poi la trama in un certo qual modo, decade, entra ed esce dalla sua realtà fittizia, a dimostrare che Recami non riusciva a far procedere congruentemente una trama lineare, e si è inventato una trovata diagonale sia per portare a compimento il testo sia per cercare di tenere il lettore sulla pagina.

Purtroppo un tentativo che non dà molto respiro, ed ha l’unico risultato di rendere l’ultimo quarto del libro una serie di sequenze che non aiutano molto a ristabilire l’ironicità di fondo dei testi di Recami. L’autore vorrebbe coinvolgerci nelle sue riflessioni sul tempo che avanza, sugli spazi che cambiano, sulla vita e sulla sua assenza. Ma noi si preferiva lo scanzonato mondo di Consonni, come era nei primi tempi, anche se, magari, con qualche risvolto positivo in più nei rapporti interpersonali.

Due appunti per finire. Una riguarda la sempre più trasversalità delle opere di scrittura. Giulia Mattioli, la figlia di Angela, dovendo andare ad un concerto degli Immortal, una band metal norvegese, si traveste da Lisabeth Salander, quella della trilogia di Larsson. L’altra l’aggancio sempre presente e gradito alla realtà milanese, che la fabbrica citata, si chiama “Magazzini Refrigeranti e del Ghiaccio Artificiale Gondrand Mangili” un luogo presente vicino a Porta Vittoria, realizzato in una stupenda palazzina liberty di fine ‘800.

Speriamo che Recami riesca a tornare sui solchi della sua migliore fantasia.

Benjamin Labatut “Maniac” Adelphi euro 20

[A: 25/12/2023 – I: 03/03/2024 – T: 06/03/2024] - &&& +

[tit. or.: The MANIAC; ling. or.: inglese; pagine: 361; anno 2023]

Benjamin Labatut è uno scrittore cileno con doppia nazionalità (olandese) e questo libro l’ha scritto in inglese. È un “divulgatore epistemologico”, come ha mostrato il suo primo libro (“Quando smettemmo di capire il mondo”), e che qui si ingegna in un’operazione anche più complessa, ma che, fin dall’inizio, tende a dimostrare un assunto ben preciso scolpito nella mente dell’autore: i guasti e le gioie dell’Intelligenza Artificiale.

L’idea dell’autore è di mostrare la sua tesi attraverso tre passi, non verso le nuvole (che tra l’altro nel film di Blasetti erano quattro), ma verso il delirio (come nel film ad episodi diretto nel ’68 da Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini). O meglio attraverso la crisi.

Il primo è un passo breve, che illustra la crisi della fisica assediata dalla matematica. Il secondo è un lungo passo, che porta la crisi della matematica applicata, assediata da chi sa meglio fare i calcoli. L’ultimo è di nuovo un breve passo, che illustra la crisi della creatività assediata dall’intelligenza artificiale. E ad ogni passo, Labatut usa un uomo, eponimo del passo stesso.

Il primo passo, narrato in terza persona, si concentra su di una data: 25 settembre 1933. Il grande matematico e fisico Paul Ehrenfest entra nell’ospedale che ha in cura il figlio down, gli spara e si uccide. Motivo? Certo la follia, ma una lucida follia. Ehrenfest aveva compreso che i nuovi sviluppi della fisica stavano portando all’introduzione di elementi irrazionali incontrollabili. Vedeva la matematica entrare nelle descrizioni dei fenomeni, con quel suo essere esattamente aliena, ingestibile. Questa per lui fatale consapevolezza, unita alla depressione che lo stava avvolgendo (non ultimi i timori per la sempre più veloce crescita del nazismo) portano il fisico al gesto che apre il libro.

Il secondo e lungo passo è la storia complessa della vita e delle opere di una delle menti più geniali della storia: John von Neumann. Come afferma il suo amico Eugene Wigner: “A questo mondo ci sono due tipi di persone: von Neumann e gli altri”. Questo passo complesso è narrato da Labatut attraverso una lunga serie di piccoli contributi inventati, pur basati su elementi reali, dove, attraverso le testimonianze di persone vicine al genio, ne risulta la pittura in movimento di tutta la sua vita, dall’infanzia alla morte. Voci che tracciano la sua personalità, l’abisso di angoscia cui faceva piombare le persone a lui vicine che non riuscivano mai a sentirsi alla sua altezza, ma anche una freddezza visionaria eppur coerente (vedere le dure frasi che pronunciò per convincere i generali americani sul punto di maggior impatto per far deflagrare la bomba atomica).

Il nostro genio alieno nasce in Ungheria come János Lajos Neumann, da una famiglia elevata al rango aristocratico nel 1913, così da aggiungere il “prefisso” von. È di un’intelligenza anni luce avanti ai suoi coetanei, ma che rimase sempre diretta verso le scienze (la moglie Klara affermerà: “Quell’uomo non sapeva neanche allacciarsi le scarpe”).

Così, nella prima parte vediamo l’infanzia sino al trasferimento in America ed al cambio del nome in John. Attraverso le parole dell’amico Wigner (futuro premio Nobel), della madre, del fratello, della prima moglie. Tutto teso, oltre all’aspetto privato, alla ricerca di poter fondare la matematica su di una base coerente di assiomi, tentativo fatto naufragare dagli inarrivati teoremi dell’incompletezza di Kurt Gödel.

Nella seconda parte viene preso in esame tutto il contributo di von Neumann al Progetto Manhattan sulla costruzione della bomba atomica, sino agli sviluppi post-bellici di architetture informatiche per la costruzione di una macchina computazionale. Quella appunto sviluppata che porta Nicholas Metropolis a costruire MANIAC (acronimo per Mathematical Analyzer, Numerical Integrator, and Computer).

L’ultima parte dei testi su von Neumann sono dedicate da un lato al duro confronto con il matematico italo-norvegese Nils Aall Barricelli sulla vita artificiale, dall’altro agli ultimi anni, dolentemente descritti dalla seconda moglie Klara (che tra l’altro fu la prima a scrivere un programma per MANIAC), attraverso l’improvviso insorgere e degenerare di un tumore al pancreas.

Quello che emerge, a parte le indubbie ed aliene qualità di Jancsi, è il tentativo, lungo tutta una vita, di portare avanti una computazione che potesse alleviare l’uomo da calcoli ripetitivi, ma che fosse, ad un certo punto, di stimolo per l’uomo stesso. Anche se, nella sua perfezione, non aveva compreso un elemento che Turing amava sottolineare: l’importanza della casualità nella costruzione di macchine intelligenti.

Un assist che permette a Labatut di arrivare all’ultimo capitolo, tutto devoto all’IA. E tutto incentrato su un genio sud-coreano e sulla sfida tra lui e AlphaGo. Perché a partire dagli anni Cinquanta, dal sasso lanciato da von Neumann, i calcolatori e l’intelligenza artificiale faranno passi da gigante. Tanto che nel 1997 DeepBlue, un calcolatore costruito per questo solo scopo dall’IBM, batte il più grande campione di scacchi dell'epoca, Garry Kasparov.

Ma qui si passa ad un gioco ancora più complesso e quasi artistico: il go. Ed al suo campione indiscusso negli anni Dieci di questo secolo, il sud-coreano Lee Se-dol. Nel marzo 2016, Lee affronta AlphaGo, un calcolatore appositamente creato per giocare a Go. La potenza di calcolo ormai raggiunge livelli inarrivabili, ed AlphaGo può costruire le sue partite su milioni di milioni di esempi. È facile predire che sarà lui a vincere la sfida per 4 a 1, ma è importante soffermarsi proprio su quell’1. L’unica vittoria di Lee è dovuta ad una mossa “fuori schema”, ricordata negli annali del go come “mossa 78”. Tanto imprevista che il calcolatore non riesce ad interpretarla, i suoi programmi vanno quasi in tilt, inducendolo in mosse insensate che portano Lee alla vittoria.

È il trionfo della casualità predicata da Turing. Ma da quel punto in poi gli sviluppatori dell’IA cominceranno ad ipotizzare costruzioni impreviste che potranno portare l’IA verso i salti logici propri dell’intelligenza umana.

È un’opera di finzione che l’autore costruisce attraverso brandelli di realtà, veri o presunti. Uno scritto che tenta di delineare la figura di una “macchina pensante” (che per fortuna non lo è ancora), ma che per diventare quello che ora è qualcosa di simile a ChatGPT, è dovuta passare per un momento creativo, di forte tensione, durante gli anni Quaranta, che ha portato due risultati diversi ed opposti: l’intelligenza artificiale e la bomba atomica.

Un libro che, pur nella complessità della sua costruzione, fa riflettere il lettore, facendogli fare un giro completo della mente per ritornare al punto di partenza di Ehrenfest: arriviamo al punto di dare nuove leggi al cosmo e non poterle tradurre attraverso delle formule. Un buon libro, anche se in alcune parti (alcune delle testimonianze reali-fittizie della vita di von Neumann) non riesce pienamente nel suo intento.

Richard Brautigan “La pesca alla trota in America” Corriere Americana euro 8,90

[A: 10/01/2024 – I: 08/03/2024 – T: 10/03/2024] - &&&

[tit. or.: Trout Fishing in America; ling. or.: inglese; pagine: 142; anno 1967]

Un libro? Un romanzo? Una poesia? Questo è un volo della mente nel cuore duro di un’America che vota (ora) Trump vista, descritta, irrisa da chi non andrà mai a votare. E seppur geniale e irriverente, raggiunge molti scopi, si legge in un sospiro, muove qualcosa nella testa (e non è poco), ma alla fine si squaglia al sole. È stato bello leggerti, cara Pesca alla trota, ma il tuo mondo (il mio mondo) è stato sconfitto e la risata non è riuscita a seppellire nessuno.

Brautigan è stato il classico esempio della controcultura americana, sul lato scrittura, come altri lo furono in altri campi. Dopo una dura infanzia e giovinezza, segnata da alcool, schizofrenia, elettroshock per episodio paranoici, poco dopo i vent’anni partendo dalla natia Tacoma (sul Pacifico verso il Canada) si ritrova nella brulicante San Francisco della fine degli anni Cinquanta. Lavoretti salutari, vita al limite, scrittura di poesie per sbarcare il lunario. Poi nel ’61, durante un campeggio nel poco lontano Idaho, scrive di getto questo “testo”, che chiamerò testo d’ora in poi, essendo ogni altra definizione poco calzante.

Un testo che era già allora difficile da assimilare, che per anni nessuno vuole pubblicare, fino a che un piccolo editore, nel 1967, la “Four Season Foundation” di Donald Allen, uno dei primi guru della controcultura, decide di tentare la sorte. Ne vende 29.000 copie, quando del libro si accorge una casa specializzata in comics e gialli, la Delacorte, che ne compra i diritti. E vende in poco tempo 2 milioni di copie, perché era il libro che catturava lo spirito della beat generation, quella che ascoltava Bob Dylan e Janis Joplin, che teneva Philip K. Dick sul comodino, mentre ascoltava Ginsberg e Ferlinghetti.

Fu il successo, ma per Brautigan fu, da allora, la scoperta di essere uno sfigato di successo. Non riuscì più a produrre testi così ben accolti, anche se alcuni libri hanno avuto una buona riuscita. Non entro in tutte le vicende di Brautigan che ne volevo solo delineare le prime fasi, per poi dispiacermi con voi che a poco a poco la fama scema, lui torna agli episodi schizoidi dell’infanzia, e nel settembre del 1984 si spara un colpo di pistola alla testa.

Ma cos’è questo testo: un insieme di episodi, brevi racconti, fotogrammi narrativi, sperimentazioni stilistiche, storie stralunate di amori finiti male, di amari incontri, d’improvvise allegrie e malinconici congedi. Piccole storie quotidiane che ruotano intorno a quel luogo immaginario che è un ruscello in cui guizzano, o almeno dovrebbero, le trote, e che a volte è una pozza d’acqua rafferma, una discarica o una casupola di legno, diventando un torrente montano smontato a pezzi, venduto nel Deposito Demolizioni di Cleveland. Un’ironia senza freni come quando descrive l'acquisto di un paio di scarpe e la possibilità di avere in omaggio un paio di calzini. Un’ironia che rovescia i canoni della vita cosiddetta normale.

Pesca alla trota in America non è solo il titolo di questo testo, è il testo stesso, a volte è un personaggio incarnato dal nome Pesca alla trota in America, qualche volta è semplicemente un'attività, poi è un ricettario e allo stesso tempo un commensale di Maria Callas, un cadavere o una frase capace di farti finire per direttissima nell'ufficio del preside, un’entità che diventa un oracolo, il vestito di Jack lo squartatore, un alberghetto, uno stato mentale, un barbone alcolizzato. Un disordine globale, perché è impossibile trovare l'ordine nella vita, dove l’ordine non c'è. Dove, alla fine, non c’è niente per cui valga la pena affannarsi, è sempre meglio sorridere e andare a pescare!

Difficile quindi parlarne da esterni. Ma entriamo nel mondo di Brautigan con alcuni punti che esemplificano la sua forza e la sua follia.

Nella prima edizione (e nelle migliori seguenti), non c’è titolo né autore. Il testo si presenta con una fotografia che ritrae Brautigan (un gran pezzo d’uomo alto quasi due metri) in piedi con tanto di cappello, panciotto e jeans, davanti alla statua di Benjamin Franklin in Washington Square a San Francisco, con accanto l'amica Michaela Le Grand. In questo modo, sottolinea nell’introduzione, tutte le persone che ogni giorno si ritrovano sotto quella statua, si ritroveranno allo stesso tempo davanti al suo libro.

Mi permetto poi di citare un breve brano, come anche altri hanno fatto.

Titolo: “Omaggio di una mezza domenica a un Leonardo da Vinci intero”.

“In questa strana giornata d’inverno nella piovosa San Francisco, Leonardo da Vinci mi è apparso in visione. La mia donna è fuori a sgobbare, lavora anche la domenica, non ha neanche un giorno libero. È uscita di casa stamattina alle otto per andare al lavoro all’angolo tra Powell e California. Io me ne sono stato seduto qui come un rospo su un tronco a sognare Leonardo da Vinci.

Ho sognato che era un dipendente della South Bend – Attrezzature da pesca, ma, naturalmente, indossava abiti diversi, parlava con un accento diverso e aveva avuto un’infanzia diversa, magari una tipica infanzia americana in una città come Lordsburg, in New Mexico, o Winchester, in Virginia.

L’ho visto mentre inventava una nuova esca rotante per la pesca alla trota in America. L’ho visto prima lavorare d’immaginazione e poi col metallo, i colori e gli ami, provando prima una cosa e poi l’altra, prima aggiungendo un po’ di movimento, poi togliendolo e quindi tornando a mettercene dell’altro, ma stavolta diverso, finché alla fine l’esca era bella e inventata.

Allora aveva chiamato i superiori. Appena quelli vedevano l’esca, cadevano a terra svenuti. Solo, in piedi in mezzo a quei corpi stesi a terra, Leonardo teneva in mano l’esca e decideva di darle un nome. La chiamava “L’ultima cena”. Poi si dava da fare per rinvenire i suoi capi.

Nel giro di pochi mesi quell’esca per la pesca alla trota divenne la sensazione del Ventesimo secolo, sorpassando di gran lunga imprese superficiali come Hiroshima o il Mahatma Gandhi. In America si vendettero milioni di “Ultime Cene”. Perfino il Vaticano ne ordinò diecimila e lì non avevano neanche una trota.

La gente faceva a gara per fare pubblicità all’esca. trentaquattro ex presidenti degli Stati Uniti dissero tutti: ‘Con “L’ultima cena” ho battuto il mio record’.”

E poi la fine. In un breve paragrafo Brautigan afferma “Per esprimere un bisogno umano, ho sempre desiderato scrivere un libro che finisse con la parola maionese”. L’ultimo capitolo è una breve finta lettera della madre che termina con il seguente postscriptum: “PS: Mi dispiace di essermi scordata di darvi la maionese”.

Geniale!

Dario Ferrari “La ricreazione è finita” Sellerio s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 05/04/2024 – T: 07/04/2024] &&&& ---    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 466; anno: 2023]

Se ne era sentito parlare in giro da diversi amici, ed allora si è chiesto di averne un regalo l’ultimo Natale. Ed ora, in quel di Pasqua si è letto, con discreto piacere ed interesse.

Ferrari è di vena toscana tendente alla spiaggia, di sicuro studioso con dottorato in quel di Pisa, dove di certo conosce l’ottimo Malvaldi, da cui deriva, ma interpretandoli, alcuni modi di porre il testo. Come di sicuro la genesi interna del libro non può aver prescisso da Pisa sia come luogo di studio che come luogo di lotta.

È una scrittura piacevole la sua, anche se il testo è complesso, ed in un certo senso è come se avesse riunito due romanzi in uno (o forse anche più di due). Con una grande lente vediamo da un lato, la parte personale con il percorso di vita del protagonista, Marcello Gori. Dall’altra, la parte politica con il diverso percorso di Tito Sella, compendiato in una elaborazione testuale, e biografica, del fittizio pisano che si condensa in un lungo capitolo di centocinquanta pagine che poteva avere la dignità di una libro a sé.

Ma se poi scendiamo più vicino al testo, ne vediamo uscire altri, che si snodano attraverso i due filoni su esposti. C’è il romanzo universitario, imperniato nel mondo accademico e di cui Ferrari fa un dipinto realistico e impietoso. C’è il romanzo di formazione, dove vediamo evolversi la vita di Marcello avvinta come un’edera a quella di Tito. C’è il romanzo nel romanzo, quello che meno mi ha convinto, dove Marcello scrive a modo suo il romanzo perduto di Tito. C’è infine il romanzo giallo, perché c’è anche un piccol mistero, che Marcello scopre e ci rivelerà nel lungo e personale finale.

L’inizio è folgorante e coinvolgente. Ferrari ci narra in prima persona le vicende personali di Marcello, inconcludente trentenne, che aspetta che le decisioni vengano prese al posto suo, che non sa cosa fare dopo una dignitosa tesi su Kafka, non volendo subentrare al padre nella gestione del bar di famiglia. Quasi senza scopo, Marcello partecipa ad un concorso per ricercatori imbandito dal barone di Italianistica, il professor Sacripanti. Ed in maniera rocambolesca, vince uno dei due posti. A valle del quale il prof lo convince a dedicarsi ad una tesi su di un autore di nicchia, l’ex-terrorista Tito Sella, morto in carcere dopo una condanna all’ergastolo per banda armata e morti varie, ed autore di alcuni testi marginale eppur interessanti. Oltre ad un’autobiografia scomparsa, intitolata “La Fantasima” (crasi improbabile tra fantasia e fantasma).

Tutta questa parte è spesso ironica con spunti arguti sul mondo claustrofobico ed impermeabile all’esterno delle accademie universitarie. Magistrale è il concione di Carlo, lo sfortunato dottorando amico di Marcello, sull’uso delle note a piè di pagina dei testi accademici. Folgorante è il giudizio sulla boria dei suddetti accademici (come fa dire a Marcello: “Gente che scuote la testa incredula nel constatare che il loro ‘La metrica nella poesia vernacolare italiana tra Ottocento e Novecento’ ha venduto meno dell’ultimo Strega”).

Saltando un romanzo, c’è poi quello che meno mi ha convinto. Marcello per la sua ricerca si trasferisce a Parigi entrando in contatto con i fuoriusciti della “dottrina Mitterand”, e li scrive e ci ripropone per intero la finta ma reale biografia di Tito. Ne esce fuori una visione un po’ goliardica del terrorismo italiano, dove magari c’è anche del vero in quelle discussione nei centri periferici lontano dalle grandi città. Una storia che forse viene da un idea laterale dell’autore, e che serve certo ad illustrare alcuni passaggi del progredire nella vita di Marcello, ma forse è troppo lunga ed irrisolta. Ho apprezzato alcuni tipicizzazioni di estremismi immaturi (con alcune punte che ho rivisto in discussioni sentite ai tempi). Ma soprattutto mi ha fatto venire in mente una trasfigurazione, in alcune scelte di Tito, alcune posizioni, soprattutto morali di Adriano Sofri, che sempre di quelle parti era.

La parentesi parigina comunque permette a Marcello di risolvere il giallo appena velato che si presenta durante tutto il romanzo. Una soluzione forse un po’ scontata, almeno così l’ho vista io, ma che chiude questo tipo di romanzo in poche e sentite battute.

Rimane quello citato per secondo, che in effetti permea come una vena irrorante buon sangue, tutto il testo. La formazione di Marcello, dall’agnosticismo ed il poco impegno mentale, attraverso le vicende della vita che lo costringono a ragionare, ed al confronto con Tito, quasi fosse un suo alter-ego lontano, fino alle prese di posizioni, all’affermazione del sé come essere agente e non come essere subente.

Un buon percorso che, alla fine, chiude un buon romanzo, pieno di spunti e di ipotesi future. Non di altre avventure di Marcello, non se ne sente il bisogno. Ma di riflettere sulle sue cose, sulla frase cardine che riporto sotto, e su tante cose che degli anni di piombo ci hanno lasciato come pesante strascico.

In fondo se tutti ci domandiamo se e come è possibile cambiare le cose, la risposta di Marcello, per gradi ci porta alla riflessione di Dario. Non è certo subendo, lasciandosi vivere che si incide. Ma non è neanche con delle ipotetiche fughe in una realtà che nessuno ora condivide. Forse, appunto, è proprio l’inconcludenza di Marcello quando si trasforma, obbligata dalla vita, ad essere attiva, a consentire di trovare uno spiraglio di futuro. Facendomi venire sempre in mente quella massima di Gesualdi, allievo di don Milani, che predicava “sobrietà!”.

È comunque un romanzo colto, pieno non solo di spunti, ma anche di citazioni letterarie e non solo. Ho trovato solidarietà nella sparata della giovane ricercatrice che si scaglia contro Gadda, autore degno e particolarissimo, che, personalmente, mi ha sempre dato fastidio leggere.

Sarà che sono per citazioni più leggere, come quella che vede Marcello apostrofare la sua fidanzata storica Letizia come “Goldilocks”. Ora qui aprire una bella parentesi. Primo, caro Dario, perché non chiamarla italianamente (tanto avremmo capito ugualmente) “Riccioli d’oro”?

Secondo, e più seriamente, in effetti Letizia è quasi un punto di riferimento solido per la costruzione di Ferrari. Infatti, ricordo ai meno adusi alle favole inglesi, che in “Riccioli d’oro ed i tre orsi” si narrano le vicende di una bimba impertinente alle prese con tre orsi. Ma non mi interessa la fiaba, bensì la morale, a valle della regola del tre (un orso scarso, un orso eccessivo, un orso giusto), cioè l’idea che la via da seguire sta nel trovare un'esatta via di mezzo tra gli opposti. Una regola di vita fondamentale.

C’è anche una punta morale anche negli atteggiamenti conclusivi di Marcello, una volta che, bagnatosi alla fonte di Tito, rivede i suoi sogni nel confronto con il reale, quasi a volerci dire, infine, che i sogni sono una prerogativa solo di chi se li può permettere.

Comunque, alla fine, un sentito grazie a Ferrari, alla sua scrittura, ed alla smossa che dà ai nostri poveri neuroni.

“È l’oppressore che arma la mano dell’oppresso.” (131)

“Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane (da Calvino).” (455)

Pier Vittorio Buffa “La casa dell’uva fragola” Piemme s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 12/09/2023 – I: 24/09/2023 – T: 26/04/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 285; anno: 2023]

Come in altre trame, devo cominciare con confessare anche qui qualche difficoltà nell’affrontare lo scritto di un autore nonché giornalista con cui ho passato cinque intensi anni di vita in un contatto continuo. Per poi continuare saltabeccando qua e là, e ritrovarsi, onusti d’età e d’esperienze, in questo canuto tramonto.

Per cui con qualche timore ho affrontato la prosa di Pier Vittorio, pur conoscendone le doti giornalistiche, pur avendo interessanti documentazioni da lui preparate sulla Seconda Guerra Mondiale, e quindi conoscendone in buon grado le doti descrittive. Ma quando si legge di persone vicine, c’è sempre la paura che l’amicizia contrasti il giudizio sereno. Buono o cattivo quando serve, ma di sicuro sempre guidato dalla testa, dal cuore e dalla pancia.

Per cui, torniamo subito al libro, galeotto come tutti, anche se questo non parla (o non parla solo) d’amore tra persone, ma parla d’amore per i luoghi, d’amore per la propria storia e per la propria appartenenza. Amore che ben si sviluppa, parlando d’altro, quasi come si fosse in tribuna a seguire uno spettacolo giù nell’arena.

Ed è proprio con l’occhio da giornalista di cronaca che Pier Vittorio si cimenta con la storia di una casa e con le persone ad essa legate. Ovvio, e noi lo sappiamo anche se poco influisce sulla lettura, che la casa è quella che Pier Vittorio ha frequentato tutte le estati della sua giovinezza (e forse anche qualcosa in più). Ma la casa dell’uva fragola è la storia di persone che vi hanno vissuto, che hanno portato avanti la vita, e tutto il loro essere, lungo il corso di lunghi e non facili anni.

La storia si spande dall’inizio della prima all’inizio della Seconda guerra mondiale. Ma, come ci avverte l’autore, è una storia che poi si espande prima e dopo, coinvolgendo tanti generazioni di cabiagliesi e non solo. Che la casa si trova, ora, in quella che fu ribattezzato durante il fascismo con il nome di Castello Cabiaglio, e di quella casa seguiamo la storia attraverso le persone che lì hanno vissuto (o che da lì sono transitate nella loro vita).

Con il suo collaudato piglio di giornalista di cronaca, Pier Vittorio ci prende per mano, ci fa fare vie laterali, conducendoci insieme al postino Isidoro per le vie di Cabiaglio, fino ad arrivare lì, alla casa che nel 1915 è guidata con piglio fermo da Ezechiella. Attraverso di lei conosciamo la storia dei Zanzi, dei De Maria, dei Porrani, dei Buffa. Percorriamo senza accorgercene le strade del tempo che dall’Ottocento ci hanno portato lì, e che da lì ripartiranno per quel pezzo del Novecento triste e dolente.

Ci vengono presentati i personaggi, lì dove il tocco dello scrittore ci fa intuire come la componente femminile sia l’asse portante del gruppo familiare in quell’interno. Che è ovvio rimanga ben impressa alla mente la figura di Ezechiella, ma anche quella di Pia, di Lina, di Cencia. Intorno si aggirano anche i maschi. Il patrono della casa, Giovanni De Maria, il primo figlio Ernesto che rimarrà sui campi di guerra. La figura, discreta, ma intensamente forte, di Agostino, che non si smonta per aver perso una gamba in guerra, continuando per tutta la vita ad essere soldato, dentro e fuori, a trasmettere questa rettitudine a tutti i suoi discendenti, insieme all’amore per i cavalli. Non dico altro ma ricordo con piacere una giornata a Piazza di Siena.

Come sottolinea lo stesso autore in ex ergo, sono le donne quelle a cui lui presta attenzione. E sono quelle che a me rimangono impresse. Lina per la sua scelta di puro amore che sarà coronata dal successo familiare tanto da diventare una colonna portante dell’asse generale delle famiglie. E la Cencia, che all’inizio seguiamo giovane e inesperta, ma che matura grandemente e con una coscienza sociale, che l’autore accenna, ma che noi, conoscendo la Storia, sappiamo rappresentare quell’asse sotteso che riuscì a portare l’Italia fuori dalla guerra e dal fascismo (almeno negli anni Quaranta; per l’oggi lascerei sospeso il giudizio).

Ripeto, sono contento di aver fatto questo viaggio nel tempo con la complessa famiglia Buffa. E ritrovo, nella scrittura di Pier Vittorio, immutato negli anni, l’ardore civile e civico che lo ha sempre contraddistinto.

Infine, avendo iniziato con ricordi personali, con questi anche finisco. Che la famiglia Buffa, una sola volta, passò le vacanze al mare, quando la Lina porto i figli a Varazze. Cosa che mi ha toccato il cuore che io, benché “romano de Roma”, ho una punta di sangue ligure, dovuto alla mia carissima nonna materna, Paola Bianca dei Marchesi Torriglia di Varazze.

Iniziamo allora questo maggio ricordando le complessivamente buone letture del mese di febbraio. Con tre letture al top: il capitolo finale della scrittura di Cormac McCarthy, e due libri datati ma molto interessanti. Un giallo di Alessandro Varallo ed una prova dello scorso secolo di Haruki Murakami. E con tutte le altre letture di sicuro buon livello, tanto che nessuna si posiziona sotto i due libri di gradimento, la soglia minima per risultare in ogni caso una lettura gradevole.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Alan Bradley

Il Natale di Flavia de Luce

Repubblica Brivido Noir

8,90

2,5

2

Annamaria Fassio

Desaparecidos

Mondadori

6,90

3

3

Lisa Taddeo

Tre donne

Corriere Americana

8,90

3,5

4

Edogawa Ranpo

La strana storia dell’isola Panorama

Capolavori Giapponesi

8,90

3

5

Pieter Aspe

Il caso Dreyse

Repubblica Emozione Noir

7,90

3

6

Cormac McCarthy

Stella Maris

Einaudi

s.p.

4

7

Giovanni Cocco & Amneris Magella

La sposa nel lago

Marsilio

10

2,5

8

Anders Roslund & Borge Hellstrom

Tre secondi

Corriere Profondo Nero

7,90

3

9

Isabel Allende

Eva Luna

Repubblica Latino-americana

9,90

3

10

Simona Tanzini

Conosci l’estate?

Sellerio

14

3,5

11

Alessandro Robecchi

Pesci piccoli

Sellerio

16

2,5

12

Christian Jacq

La regina d’oro

tre60

s.p.

2

13

Alessandro Varaldo

Il sette bello

Mondadori

5,90

4

14

Martin Caparros

Tutto per la patria

Repubblica Brivido Noir

8,90

2

15

Haruki Murakami

La ragazza dello Sputnik

Corriere

8,90

4

16

Giancarlo De Cataldo

Io sono il castigo

Repubblica Noir

8,90

3

17

Yoshida Shuichi

Appartamento 401

Corriere

8,90

2

Parliamo di romanzi, ed allora come non citarne un meta libro, “La libreria del buon romanzo” di Laurence Cossé. Dove mi piace riportarvi due considerazioni sul rapporto a due: “Dio sa quanto amo le donne, quanto le ho amate e quanto alcune abbiano desiderato rimanere con me … Quel che sono in grado di offrire io non è abbastanza reale perché una donna possa immaginare di farne qualcosa … ho sempre proposto più instabilità che sicurezza … La vita in comune e tutto ciò che ne consegue è una via che non sono in grado di percorrere … da parte mia non è una scelta, è una incapacità … so troppo bene che darei una delusione a che si fida di me” (117). E “Ora so come fare la corte a qualcuno che non crede più in sé stesso, so che bisogna essere pazienti e fiduciosi nonostante tutto, e che la cosa può durare un pezzo” (401).

Passati problemini, e rimasti doloretti, non possiamo tacere l’ottima vacanza trascorsa i giorni passati a Barcellona, dove si mancava da anni e che ho trovato di una gradevolezza assoluta. Non solo per le belle cose da vedere, e ce ne sono, ma proprio per la città stessa, il suo modo di vivere e il meraviglioso giardino della libreria “La Central”. Dovete andarci o tornarci, ne vale sempre la pena. Per questo fortemente vi abbraccio.

domenica 28 aprile 2024

Italiani più saggi dei giapponesi - 28 aprile 2024

Non una battuta, ma la costatazione a valle di una settimana dedicata ad alcuni saggi o di letteratura poco classificabile. Ci sono due giapponesi storici, Murakami e Yoshimoto, con libri un po’ datati, e con un po’ di delusione per la scrittura di Banana. Mentre a lato ci sono due italiani, D’Avenia e Bianchi. Il primo con un viaggio insieme ad Ulisse che mi ha scaldato il cuore. Enzo Bianchi con due libri dedicati alla morte ed alla vecchiaia che ho letto con attenzione che le riflessioni dell’ex-priore di Bose non lasciano mai indifferenti. Unico cruccio, per ragioni di acquisiti disordinati, ho letto prima la morte e poi la vecchiaia. Ma credo che le mie personali riflessioni ne possano prescindere.

Insomma, alcuni libri che consiglierei senz’altro di leggere. Magari possiamo avere reazioni diverse, ma non sono certo libri banali (in senso matematico).

Alessandro D’Avenia “Resisti, cuore” Mondadori s.p. (regalo di Emilio&Fako)

[A: 12/09/2023 – I: 29/09/2023 – T: 03/10/2023] &&&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 415; anno: 2023]

Non c’è dubbio: Alessandro D’Avenia è un professore. Conosce le corde affinché la letteratura, tutta, possa entrare in sintonia con l’altro da sé, sia esso studente o lettore. Poiché inoltre conosce bene ciò di cui parla, la resa stilistica è di alto profilo.

Avevo cominciato anni fa con il suo primo romanzo, di buona ma normale fattura. Passati anni, ho letto la sua arte della fragilità, dove mi restituiva un Leopardi finalmente umano. Ora, con decisione e passione, arriva al cuore del suo viaggio, come Ulisse di cui ci parla. Ci arriva perché intreccia la letteratura alla vita, alla sua vita (e d’altra parte è sempre così, la letteratura, il libro è parte di noi, basta lasciarsi cullare dalle pagine, ed accettare che quello che viene detto è per noi e non per altri, come in modo illuminante vien fuori dalle parole di Chesterton che metto in fondo). Ma non dimentico anche che, non sempre ma con sovente curiosità, segue le sue parole periodiche sul Corriere.

Intanto, riprenderei il titolo completo che recita: “resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali”. D’Avenia, da fine conoscitore del greco e profondo amante della scrittura omerica, ripercorre nel testo il modo di porre il poema epico alle sue classi liceali. Certo, è difficile che ci faccia fare lo stesso percorso, visto che non può indurci a leggere l’Odissea integralmente. Si accontenta di narrarcela, smembrandola e ricomponendola. Intrecciandola poi, come sempre avviene con i libri, con la sua vita personale.

Piena di aneddoti e di rimandi a tutta la sua storia, in realtà non ho interesse ad addentrarmi nel suo personale. Se non per un punto. Alessandro confessa di essere riuscito a porre mano ed a terminare il testo solo avendo nel frattempo incontrato un amore felice, con il quale, mentre noi ne leggiamo, sappiamo ha convolato in giuste nozze. Con l’augurio mio personale di aver trovato quello che vi ho trovato io, che, vi confesso, non è poco.

Tuttavia il personale dell’autore non mi interessa ripercorrere in queste righe. Ne potete leggere, ne potete trarre i vostri giudizi, le vostre simpatie e antipatie. Io vorrei accompagnarmi ad Alessandro in alcune sue osservazioni, che hanno aperto squarci di conoscenza in una materia che, pur presente nel fondo della mente, non è mai risultata così viva come ora che ne ho riletto i punti esaltanti.

Una piccola premessa. In gioventù, era un patito dell’Iliade, ma non per la guerra in sé, né per la figura di Achille, che mai mi ha sedotto. Ma per quell’inarrivabile “Catalogo delle Navi” compreso nel secondo libro. Un elenco che stimolava la mia fantasia di viaggio. Lì di fronte a Troia v’era un concentrato del mondo com’era conosciuto. Ed il catalogo portava a sognare l’esistenza di tutte quelle terre che, se fossi stato allora un viaggiatore, avrei visitato.

Avevo quindi riservato ad Ulisse solo dei piccoli posti speciali e specifici, su cui tornerò. Qui, Alessandro mi spalanca un mondo. Prima di tutto perché mi fa ragionare che, dal punto di vista temporale, l’Odissea si spande in realtà per 40 giorni, dalla partenza di Ulisse da Ogigia dove aveva vissuto con la dea Calipso all’arrivo ad Itaca ed al consumarsi della vendetta e della riconciliazione con Penelope e Laerte. Numeri importanti, che Ulisse sono 20 anni che è lontano da Itaca, i dieci della guerra ed i dieci necessari al ritorno. E 20 è un’unità ciclica ricorrente in molte datazioni (ad esempio nel calendario Maya).

Secondo apporto di conoscenza è la tripartizione del poema, rispetto all’usuale divisione in cinque stadi. Così che vediamo più concisamente divisi i 24 canti del poema, otto per ogni parte. La prima, etichettata partire, ci fa immergere prima nel mondo di Telemaco e della sua partenza da Itaca, e poi nella partenza di Ulisse da Ogigia. La seconda, che si vuol ricordare come viaggiare, è riempita dalla narrazione che fa Ulisse ai Feaci, descrivendo come ha passato gli ultimi dieci anni dopo aver lasciato Troia. Questa è poi quella che rimane nell’immaginario collettivo come la vera “odissea”, nome che diventa eponimo. Infine la terza, tornare, quando sia Ulisse che Telemaco tornano a Itaca. E dove si consuma il finale annunciato dell’Odissea.

Non il finale di Ulisse, che, come sappiamo dalle parole di Tiresia che Ulisse incontra nel breve viaggio tra i morti, il nostro è destinato ad altri viaggi, per infine morire in un lugo lontano dal mare.

L’altra idea dell’autore che mi ha fatto riflettere è la decisione di Ulisse, quando sta da Calipso, di rinunciare all’immortalità, per seguire la sua vena mortale, e ricongiungersi con gli affetti. Penelope, Telemaco, Laerte. Non Anticlea, la madre, che lui sa già essere morta. Ma è l’affacciarsi della morte come elemento della vita che permea tutto il poema e la decisione di Ulisse. Solo perché sappiamo di morire, possiamo dare un senso alla nostra vita. Solo viaggiando verso la morte possiamo nascere ogni giorno nel nostro immenso quotidiano. In modo che il nostro cuore (là dove è la sorgente di tutto il nostro essere, l’anima forse) possa resistere. Filosoficamente, come ci insegna il professor D’Avenia, nel senso di ri-esistere.

A ben guardare, il ritorno verso Itaca è meglio da intendere come un viaggio verso Itaca. Ulisse non vuole tornare all’Itaca del suo passato, ma arrivare ad Itaca per costruire il suo futuro. Ulisse, e noi con lui, invece di fuggire torna, arriva. Ulisse, e noi con lui, invece di morire, nasciamo alla vita.

Abbandonando D’Avenia, ma non Ulisse, questo percorso veloce che lui mi ha concesso di fare insieme, riprende alcuni punti che, nel corso degli anni, hanno saldato il me stesso con la vita che sto vivendo. Legandomi prima (grazie professor Morganti) al canto XXVI ed alla terzina che recita: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Per cui lo studio e le novità hanno sempre legato la mia passione nell’esistere.

Passando poi, durante i turbolenti venti anni, all’amore per Foscolo ed al suo passaggio su Zacinto: “bello di fama e di sventura / baciò la sua petrosa Itaca Ulisse”. Avrei voluto essere bello, ma in fondo, baciando la mia Itaca certificavo una volontà di non arrendersi.

Finendo quindi, dopo tanti viaggi anche mentali, ad approdare a Konstantinos Kavafis: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga, / fertile in avventure e in esperienze”.

Parole che racchiudono, per me, il senso di Itaca e di questo libro. Con il viaggio ad Itaca bisogna avere la capacità di accogliere il viaggio (la vita) per quello che è. Esperienze uniche, irripetibili, casuali, caotiche. Insieme di momenti che modellano in modo unico la nostra unicità di essere umani.

“Ho imparato a leggere prima di andare alle elementari … i libri hanno segnato la mia infanzia … così mi sono messo a rileggere le avventure di Asterix.” (39)

“Raymond Carver: E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? /Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra.” (81)

“Chesterton: Ogni storia … ha qualcosa che appartiene all’universo. Ogni storia, per quanto breve, comincia con la creazione e termina con il giudizio finale.” (153)

“Bibbia (Salmo 90): Insegnaci dunque a contare i nostri giorni, per ottenere un cuore saggio.” (169)

“Niente come la morte dei genitori, e soprattutto la morte della madre, fa prendere coscienza di non essere immortali.” (245)

Haruki Murakami “Underground” Corriere – Murakami 6 euro 8,90

[A: 18/06/2020 – I: 23/12/2023 – T: 25/12/2023] - &&      

[tit. or.: アンダーグラウンド Andāgurando & 約束された場所で―underground 2 Yakusoku sareta basho de: Underground 2; ling. or.: giapponese; pagine: 502; anno 1997-8]

Una premessa: pur andando avanti nella lettura dell’opera dell’autore, ho inserito questo volume in una trama di scrittura varia, che non solo non è un romanzo, ma è un’opera che diverge dal solco tradizionale delle scritture di Murakami, per cui ne preferisco questa collocazione.

Intanto, come si dovrebbe capire dal titolo originale, questo volume racchiude due saggi di Murakami, intitolati “Underground” e “Underground 2”, dedicati (e vedremo come) ad un momento topico della storia giapponese recente: l’attentato al sarin avvenuto il 20 marzo 1995 nella metropolitana di Tokyo, che provocò 13 morti ed oltre 600 intossicati. Gli attentati vennero ideati da Shōkō Asahara, fondatore dalla setta religiosa dell'Aum Shinrikyō, ed eseguiti da alcuni membri della setta stessa.

L’idea di Murakami, all’epoca da poco tornato in Giappone dopo lunghi soggiorni in Europa, è stata di intervistare le persone colpite dall’attentato, riprodurre più o meno fedelmente le interviste stesse, al fine di far uscire un quadro sulla quotidianità giapponese, su come furono gestiti i soccorsi, visti dalla parte delle persone colpite, e su come, dopo, le stesse persone stessero vivendo quel momento. Murakami ha cercato di non intervenire in prima persona, ma soltanto di organizzare i testi in modo fruibile al lettore.

Una volta però pubblicato “Underground” fu da un lato sommerso di critiche perché, appunto, non erano presenti analisi e considerazioni sull’accaduto, dall’altro (ma questo fu una sua sensazione personale) perché, anche se volutamente, non c’era nessun accenno a chi fosse e cosa pensassero gli adepti della setta. Motivo per cui, decide di dedicare una seconda tornata di interviste ad alcune persone sia ancora appartenenti ad Aum, sia essendosene, per motivi vari, allontanati. Esce così “Underground 2”, dove Murakami è più presente, che ci sono le domande, ed alcune considerazioni dell’autore stesso, anche se il tessuto del testo è fatto delle parole e delle considerazioni dei discepoli di Asahara.

Comunque, il “documentario” (perché sembra quasi una sequenza di immagini piuttosto che un libro scritto) nella prima parte è diviso in sette capitoli, corrispondenti alle diverse linee della metro dove sono avvenuti gli attentati. L’attenzione di Murakami ai dettagli ci introduce con la descrizione e l’operatività del commando per ognuna delle linee della metro interessate. Dopo di che passa alla testimonianza di chi, utilizzando quella linea, era stato colpito dal gas.

Si ha così l’impressione di condividere con i malcapitati i momenti d’angoscia in cui ci si comincia a sentire male e non se ne capiscono i motivi. Si vive una situazione di estrema confusione in tutte le stazioni, dove nessuno riesce a prendere un comando operativo (ma da lì, i giapponesi faranno tesoro ed ora sono molto attrezzati). Si vedono persone mandate in ospedale, ma le ambulanze non arrivano ed allora ci vanno da sole o in taxi. Si vedono gli ospedali sovracaricati di lavoro che non sanno come affrontare. Sarà solo la perizia di un medico, che aveva analizzato pochi mesi prima casi di avvelenamenti da gas tossici, che permetterà di individuare l’elemento scatenante. Da lì sarà tutto più facile, che l’avvelenamento da sarin, se riconosciuto, è facilmente neutralizzabile. Peccato che tra intossicazioni troppo forti e mancanza di cure specifiche immediate, alla fine ci siano 13 morti e più di 6000 intossicati.

In questa prima parte, Murakami è praticamente trasparente. Non entra nelle interviste, si limita a registrare le sofferenze di chi ha subito un danno senza capirne i motivi. Certo, l’impatto è forte, e mi domando, e forse è anche questo che ci chiede Murakami, cosa avremmo fatto noi. Noi, qui, ora, non lo so. Ma leggendone mi viene in mente che a fronte di situazioni eccezionali, i nostri genitori hanno fatto scelte e hanno saputo cosa fare.

Come detto, sentendo il libro monco, Murakami decide di intervistare seguaci della setta Aum. Vediamo così un confronto immediato, non con i colpevoli ma con chi, senza prendere posizione, stava da una parte e non si rendeva conto di quale baratro stava aprendosi. C’erano professionisti, cittadini integerrimi e stimati, che salgono sulla metro con il sarin, e spargono la morte nei vagoni. Il mistero è che anche il leader della setta, durante il processo, non ha mai voluto confessare i motivi del gesto criminale. Certo, il Giappone attraversava un periodo di grande crisi, con una pessimistica visione del futuro. Tra l’altro si avvicinava quell’inutile spauracchio del “Millenium”. Così che possiamo immaginare che menti fragili possono decidere di affidarsi senza contraddittorio ad una persona forte. È capitato nel passato, capita nel presente, capiterà nel futuro.

Non è un caso, e questo esce dalle interviste dove Murakami si fa presente ed instaura un contraddittorio, che quando le ragioni filosofiche e di vita vengono meno, le persone si allontanano dalla setta, o rimangono anche se Aum sembra cambiare profilo, dandosi un’aria più meditativa. Anche se a me rimangono perplessità, laddove, ad esempio, ora, nel nostro presente storico, Aum risulta particolarmente presente ed attiva in Russia.

Alla fine, Murakami riesce ad imbastire un percorso complesso, che parte dalle vittime del gas, attraversa i colpevoli, per arrivare alle vittime della setta. Cioè abbiamo le terribili esperienze delle vittime e le reazioni di coloro che stavano con i cattivi senza saperlo, e probabilmente senza esserlo.

Un libro difficile, con molti spunti di riflessione anche su quanto accade qui ed ora. Ma soprattutto un libro che ci dà uno spaccato del mondo giapponese, una visione complessa della psiche nipponica, una fotografia che non può mancare nel nostro immaginario se vogliamo veramente comprendere quel mondo lontano e pur sempre affascinante. Ma pur se interessante è anche un libro abbastanza pesante da portare fino in fondo.

Banana Yoshimoto “Che significa diventare adulti?” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 11,40 euro)

[A: 02/04/2024 – I: 11/04/2024 – T: 12/04/2024] - &      

[tit. or.: 大人になるとはどういう意味ですか Otonani narutte donna koto?; ling. or.: giapponese; pagine: 90; anno 2015]

Ho sempre letto con interesse la delicata scrittura di Banana Yoshimoto, che anche quando nei suoi romanzi affronta tematiche complesse, risulta di gradevole e coinvolgente lettura. Quasi ci si potesse mettere intorno ad un tavolo, con alcune buone tazze di tè e ci si scambiasse pensieri su tutto.

Qui, però, non siamo in un romanzo, ma in qualcosa che verrebbe da definire saggio, ma forse sarebbe più calzante definire appunti di memoria sul filo di pensieri che vanno e vengono nella nostra mente. Il risultato, tuttavia, è decisamente deludente. Se non si conoscesse l’autrice, sembrerebbe essere caduti di peso in un libro di auto-aiuto anche un po’ debole nella scrittura. Senza voler essere troppo critici (o caustici) sembra di voler iniziare a leggere un libro di Tolstoj e trovarsi tra le mani un testo di Coelho.

Certo, Banana mette subito le mani avanti dicendo di voler scrivere qualcosa che si possa sfogliare senza impegno, che si possa prendere ed aprire a caso, lasciandoci sfiorare dalle parole, magari riuscendo a farcele sentire vicine nel momento di quel bisogno.

Perché Banana si pone (ci pone) alcune domande e su quelle imbastisce un discorsetto morale che però rimane talmente in superfice che a me ha dato l’impressione quasi si volesse fare un fioretto pubblicando parole a ruota libera.

Ci sono, è vero, alcuni elementi che un po’ squarciano il basso velo del testo. Da un lato sono gli accenni al personale di Banana. Quando, per parlare dell’argomento del capitolo, tira fuori qualche elemento personale, di certo il livello sale. Ma sarebbe salito più e meglio con un percorso al contrario. Ti parlo di me, ti racconto brani del mio vissuto, e li intercalo con le questioni che pongono, che mi hanno posto.

Ad esempio, parla del me bambino o quasi adolescente, l’ambiente della scuola, il rapporto con gli altri, e capisco (ti faccio capire) che sto diventando adulto perché ho una piccola indipendenza economica e mi preoccupo non solo di me, ma dei miei affetti, ed anche del mondo in cui vivo. Purtroppo, il libro non è così.

L’altro elemento è il tocco lieve della matita di Goto Tomomi, che, in fondo alla pagina, con pochi tratti disegna montagne, prati, fiori, alberi ed altro. Un tratto che è puro ed essenziale e rimanda sensi di pacificazione. Disegni complessi avrebbero dovuto essere interpretati ed avrebbero appesantito e non alleggerito il testo.

Ma cosa ci (e si chiede) Banana? Che significa diventare adulti? Si deve studiare per forza? Che cos’è la normalità? Eccole, alcune delle domande. E non sono certo di poco peso.

Lasciando la prima ad una diversa e finale riflessione, sono d’accordo che “non si deve studiare per forza”, ma di certo studiare per dare delle basi alla propria esistenza è fondamentale. Come seguire la propria indole, a parte di capire quale essa sia veramente.

E come definire la normalità, in un mondo dominato dal “politically correct”, per cui più che normalità si parla di appiattimento verso una linea di comportamento mediana che non crei problemi agli altri. Oppure vogliamo parlare dell’amicizia? Non ci vuole certo Banana per dirci che l’amico è uno che ci accetta per quello che siamo, che capisce dove possiamo modificarci, e che possiamo non vederci per anni, ma che nel momento in cui ci si ritrova si sente quel flusso di consapevolezza e di fiducia reciproca.

Certo, dovremmo anche contestualizzare il libro nell’ambiente giapponese, che è competitivo, isolante, scostante, e difficilmente amichevole. Forse lì, una saggia sessantenne, di acclamati onori, può essere ascoltata, e può dare qualche input di riflessione magari a quei giovani malati di social che, chi come me ha visto varie volte il Giappone, ne capisce l’esistenza e ne teme la solitudine.

Poi ci sono capitoli di cui anche leggendo, poco capisco il senso. Come “che succede quando si muore?” o “che vuol dire darsi da fare?”. Già dall’enunciazione mi sento provenire da un mondo diverso. Per non parlare, e qui ne finisco l’enunciazione, con un capitolo intitolato “Qual è il senso della vita?”.

Ma volevo prima di chiudere tornare sull’argomentazione del testo. Ebbene, in Giappone ci sono fior di siti che fanno la predica morale ammonendo i giovani (e non solo) che bisogna pensare di più. Che elencano, in modi accattivanti per quei divoratori di manga, le cose da tenere in considerazione per “crescere”.

Facendone una collazione, si evince che, per i Giapponesi, le regole per diventare adulti sono: ragionare con la propria testa, essere finanziariamente indipendente, poter vivere da solo senza essere solitario, avere senso della responsabilità, fare del proprio meglio per il mondo e per gli altri, e, per chiudere, un monito che non esito a definire “fintamente amicale”, cioè, avere buon senso.

Credo proprio che Banana leggendo queste corbellerie in patria, abbia sentito il bisogno di rivoltarle, di affiancarle con la propria esperienza (la felicità dell’infanzia, il rapporto con la madre e le sue ambizioni, le malattie affrontate e superate) e di presentarle ai suoi connazionali con viva preghiera di meditazione.

Io avevo comprato il libro sperando vivamente in un florilegio di appunti e note per accompagnare momenti non direi di tristezza, ma di riflessione matura certo. Un acquisto poco felice.

“Non è necessario diventare adulti, l’importante è che rimaniate fedeli a voi stessi.” (7)

“La salute si può trascurare solo se c’è ancora.” (65)

Enzo Bianchi “Cosa c’è di là” Il Mulino s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 30/08/2023 – I: 14/09/2023 – T: 16/09/2023] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 147; anno: 2022]

Mi accosto sempre con gran piacere, e rispetto, agli scritti di Enzo Bianchi. Ne ho letti e meditati molti, anche se mi dispiace aver saltato “La vita e i giorni”, il suo scritto sulla vecchiaia (che avrei volentieri compulsato con a fronte quello di Norberto Bobbio, per me un punto altissimo di riferimento e riflessione).

Avendo quindi saltato la vecchiaia, ecco che mi ritrovo a pensare su queste parole di Bianchi che toccano un punto fondamentale dell’esistenza umana: la morte e quanto viene (può venire) dopo. Bianchi affronta il suo percorso con brevi capitoli, con piccole riflessioni, che non intendo, non ho la capacità di affrontare unitariamente. Per cui cercherò di fare un colloquio con l’essenza e le sensazioni che mi ha suscitato la lettura.

Cominciando con un pensiero rivolto ad uno dei capitoli centrali, dal titolo: “So che morirò…”. Qui si apre un discorso mentale enorme. Tutti sappiamo di dover morire. Abbiamo visto, anche se giovani o come ora anziani, morire delle persone. Soprattutto persone a noi vicini. Ma è sempre una visione altra. Mia madre è morta (quasi sei anni fa, ormai) ed io sapevo che il suo fisico si stava spegnendo. Ma lei è un altro da me, e se io so che morirò, come lei, come papà, come Giuliano, come Carlo, non riesco a figurarmi la mia morte personale.

Enzo si interroga sulla ineluttabilità della morte, tra l’altro iniziano la sua riflessione dal Salmo 90 che riporto in fondo. Inciso: poco tempo fa ho letto il libro di D’Avenia sull’Odissea ed anche lui citava lo stesso salmo, anche se qualche verso successivo, che dice “Insegnaci a contare i nostri giorni, e acquisteremo un cuore saggio.” Io non so se il mio cuore è saggio, ma la scadenza che ci ricorda Bianchi si lega a quella di Alessandro. Contare i propri giorni significa affrontare, ogni giorno, la vita prima che voli via. Come?

L’antidoto, in tutti e due i libri, è l’amore, come ci ricorda la chiusa del libro stesso. Amore che vince la paura e la solitudine. Amore che ci permette di passare da “io” a “io e tu” a (questo deve essere l’arrivo) “noi due insieme”.

Ritornando anche a Bobbio, un’altra considerazione che condividiamo tutti e tre (io, Enzo e Norberto) riguarda la vecchiaia che deve essere considerata un tempo molto importante da vivere per prepararsi a morire. Solo da anziani, realmente, si percepisce la possibile (e vicina) fine. Mette angoscia ma soprattutto per chi rimane. Certo, personalmente sono atterrito dall’idea di provare dolore, ma ancor di più dalla consapevolezza che chi resta avrà del dolore (ovvio che noi, io, voi, sappiamo che non tutti quelli che restano avranno la stessa reazione, ma a noi interessano alcune razioni specifiche, e di quelle sappiamo).

Un’altra considerazione mi nasce quando Bianchi, citando e parafrasando Hannah Arendt, ci ricorda che non siamo fatti per morire, ma per nascere. Stranamente (ma forse non tanto) è la stessa considerazione che viene dal libro di D’Avenia. Perché Ulisse, eponimo di noi tutti, sceglie di essere mortale (e quindi di accettare che ci sia una fine corporea, anche se non sarà, non potrebbe essere una fine dei neuroni cerebrali) per poter nascere all’amore di Telemaco e Penelope. Rimane quindi la forte considerazione che ci rimanda ad un egloga virgiliana: Omnia vincit amor: et nos cedamus amori (cioè: “L'amore vince tutto, arrendiamoci anche noi all'amore”).

Finisce (cioè finisce il discorso, anche se non è la parte finale del testo) il nostro abate con una considerazione: credere o non credere nell’al di là cambia qualcosa nell’al di qua? No, perché in ogni caso la nostra vita presente, scandita dalle due date che faranno ricordo di noi, deve essere vissuta. Sapendo poi che la morte ci segue ad ogni passo, dobbiamo impegnarci a rafforzare l’altro corno della fiamma antica, quello dell’amore. Dobbiamo immaginare una vita, dubitare delle nostre certezze, meditare sulle nostre azioni al fine di essere creativi. Dobbiamo sperare sempre e lavorare, qui, ora, per costruire la nostra vita d’amore.

Ed alla fine, come ci dice Enzo Bianchi e chi ricorda la morte di Mosè, dobbiamo arrenderci al bacio.

“Salmo 90 (versetto 10): I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni; o, per i più forti, a ottant'anni; ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto, e noi ce ne voliamo via.” (9)

“Rainer Maria Rilke: concedi a ciascuno la sua morte frutto di quella vita in cui trovò amore, senso e pena.” (41)

“È l’amore … che permette di sostenere l’enigma della morte e che rende il vivere una vita.” (146)

Enzo Bianchi “La vita e i giorni” Corriere euro 8,90

[A: 20/03/2024 – I: 19/04/2024 – T: 20/04/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 138; anno: 2018]

Un libro che cercavo, essendo quasi uscito dal catalogo de “Il Mulino”, ma, fortunatamente, riproposto da una collana del Corriere della Sera dedicata alla “Longevità”. Ed allora, visto, comprato e subito letto. Ha qualcosa in meno di quanto mi aspettavo, tuttavia è, come al solito nelle letture del priore (o ex) di Bose, un momento di sana (e personale) riflessione.

Il testo è una, purtroppo, breve riflessione sulla vecchiaia e sul modo di viverla. Intanto, si potrebbe iniziare ricordando che, secondo Seneca, la vecchiaia è una malattia inguaribile. Dicevo modo di viverla, perché c’è tutto Bianchi nell’excursus che fa. Che non si dimentica mai della sua biografia, da dove proviene, dalla sua terra, e del suo bisogno di vicinanza ad essa, tanto che l’orto, ora, diventa uno dei suoi amici più cari.

Affetto della terra che si lega a chi cominciò con lui i passi su questa terra. Parenti in prima fila, ma fin dall’inizio, gli amici. Ed ecco che il senso dell’amicizia è quello che, amorevolmente, sorregge l’impalcatura di vita del filosofo, come ricorda il bellissimo verso attribuito ad Alfonso XI di Castiglia che riporto in finale. Con quel tocco, che sempre a me risuona, della differenza tra solitudine, a volte di peso anche se ci consente meditazioni, e solitario, una persona che può stare solo, anche e soprattutto perché gli altri, gli amici, gli amori, sono con lui e lui con loro quando realmente servono. Perché, come diceva Gabriel García Márquez: «La morte non arriva con la vecchiaia, ma con la solitudine».

Gli amici che poi cita per nome, e che anche a me risuonano, essendo amici e sodali anche di mio padre, pur non sapendo io (ma ormai è troppo tardi) se papà avesse incrociato nei suoi lunghi giri politici e cristiani anche il priore di Bose. Ma Enzo li cita, ed io con lui ricordo padre Davide Maria Turoldo (e le sue poesie) ed Ernesto Balducci. Persone (ed altre con loro) che se ne sono andate ma che sono sempre vive dentro di noi.

La filosofia di Bianchi, che sempre a me ricorda il Gesualdi di “Sobrietà” è molto impostata sul “lasciare la presa”, che non è una resa passiva all’avanzare del tempo, né un pianto per le cose che si lasciano o si devono lasciare. Né infine, la vecchiaia, può essere una sopravvivenza a sé stessi (quanti esempi orrendi abbiamo di fronte a noi…). Lasciare la presa significa fare un bagno di realtà e capire cosa si può ottenere dal proprio corpo e dalla propria mente. Significa, brevemente, prepararsi. Come?

Fondamentalmente, direi, con l’ascolto. Il primo è l’ascolto del proprio corpo, quando ci accorgiamo, ad esempio, del calo dell’udito. O delle variazioni nelle visioni laddove il nitido diventa opaco ed il vicino, a volte, risalta meglio (e questo lo dico per me, che a voi, invece, succede il contrario). La riduzione della forza che non sparisce ma si affievolisce. Io me ne accorgo camminando, laddove molta gente con passo spedito mi lascia sul posto, sebbene io cammini e non poco. ma non è in piano che si manifesta, ma salendo e scendendo le scale, come spesso mi ricordava mia madre.

Il secondo è l’ascolto della propria mente, ed allora ben venga il nutrimento della propria vita interiore leggendo, scrivendo, ascoltando (molta musica) e vedendo. Anche la televisione, che stiamo parlando di vecchiaia per tutti, e molti anziani solitari trovano conforto in visioni televisive, che non siano i programmi demenziali che ben conosciamo e di cui taccio.

Non posso non ricordare poi che Bianchi, da ottimo credente, sottende al suo discorso un filo rosso cristiano, dove la Bibbia diventa, anche, il metodo interpretativo degli avvenimenti pubblici e privati. Dove, ad esempio, oltre ai momenti ed ai motivi personali, il calo dell’udito per Enzo rimanda subito alla “Lettera ai Romani” dove Paolo si lamenta che chi ascolta non sente. E dove, sempre partendo da San Paolo, rovescia il senso della “nemica morte” della “Lettera ai Corinzi” nella “sorella morte” di San Francesco.

Certo, tautologicamente, è difficile avere una vecchiaia serena se non si ha avuto una vita “bella, buona e felice”. Che anche qui, non significa una vita priva di asperità, ma una dove, affrontare e superare le prove, porta ad un maggiore coscienza di sé, consentendoci di invecchiare mantenendo quella speranza che l’autore ci suggerisce nella penultima frase che riporta. Dove anch’io vorrei riuscire ad aggiungere vita ai giorni futuri.

La vecchiaia, affrontata con tutte queste speranze, poi, non potrà che finire. Ma è proprio la fine che dona un senso a quanto succede prima. Ed in questa fine, tornerei alle parole di Bianchi, all’amore che sostiene tutte le nostre azioni, sia nella sua visione cristiana, ma anche in tutte le visioni eticamente corrette, perché solo attraverso l’amore si vince la morte. E questo è un messaggio per cui vale la pena di vivere, già qui e già ora.

A me leggere le sue parole, a prescindere dalla bellezza degli scritti, dà sempre un senso di pace e di riflessioni. Non mi par poco.

“A ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio,” (12)

“[C’è] una vecchiaia nella quale l’intelligenza viene a mancare perché durante il resto della vita non la si è esercitata.” (43) [Dal Siracide o Libro di Sira]

“Per la società, la vecchiaia appare come una sorte di segreto vergognoso di cui non sta bene parlare.” (61) [Simone de Beauvoir]

“Occorre avere il coraggio di invecchiare perché … la vecchiaia è un compito e una sfida.” (62)

“La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.” (72) [Gabriel Garcia Marquez]

“Per i vecchi … la lettura è un pellegrinaggio.” (94)

“Voglio vivere la vecchiaia: non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei ultimi giorni.” (105)

“Bruciate legna vecchia / bevete vini vecchi / leggete libri vecchi / abbiate vecchi amici.” (122) [Alfonso XI di Castiglia]

Per riscattarmi del (mal) trattamento inflitto ai miei comunque cari giapponesi, propongo allora due serie di citazioni tratte da due loro romanzi.

Da Banana Yoshimoto traggo dal suo “Tsugumi” i seguenti pensieri legati all’amore, alla coppia al crescere:        

“-Tu hai un animo molto forte e una grande tenacia, così che se anche dovessi rimanere qui per sempre, riusciresti a vedere molte più cose tu, di quelli che fanno il giro del mondo. … -Mi sono innamorata di te.” (81)

“Per quanto uno possa invecchiare, l’amore è qualcosa che nel momento in cui te ne rendi conto, ormai lo stai già vivendo. Ce ne sono di due tipi, quelli di cui si riesce a vedere la fine e quelli di cui non è possibile. Siamo soltanto noi stessi che possiamo dire di quale dei due si tratti.” (91)

“Mi piace così tanto che quando lo guardo negli occhi, mi viene voglia di spiaccicargli un gelato in faccia.” (92)

“Le cose ci passavano davanti agli occhi, e noi diventavamo grandi.” (104)

“Quando penso a lei, senza accorgermene, mi viene da riflettere su cose più grandi di me … I miei pensieri vanno ad impegolarsi in questioni immense. Come, per esempio, la vita o la morte. Ma non perché lei è debole fisicamente. Quando la guardo negli occhi … vengo pervaso da un senso di rigore.” (131)

Mentre faccio una grande riverenza, perché di Haruki Murakami estraggo pensieri da quello che per me rimane il suo libro più bello “Norwegian Wood”:

“Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle” (6)

“Non [leggi] proprio gli autori del momento. – È proprio per questo che li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo stesso modo” (41)

“Sei proprio un tipo strano, tu. Fai battute con l’aria di chi dice la cosa più seria del mondo.” (93)

“Comunque, sai che cosa ho pensato? Come sarebbe bello se il primo bacio della mia vita fosse stato questo! … Non sarebbe bello, arrivare, che ne so, a cinquantotto anni, pensare: chissà dove sarà adesso … il ragazzo che per la prima volta mi diede un bacio sulla terrazza tra i fili per stendere la biancheria?” (221)

“Ho bisogno di tempo … Tempo per pensare, per fare ordine dentro di me, per capire. Mi rendo conto che non è giusto nei tuoi confronti, ma per adesso è tutto quello che posso dire…. – Va bene, aspetterò… Ma quando mi prenderai, dev’essere solo me che prendi. E quando mi stringerai dev’essere a me che pensi.” (337)

“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita, che questo fosse vero era fuori di dubbio. Nel momento stesso in cui viviamo, cresciamo in noi la morte. Ma questa era solo una parte della verità che dobbiamo imparare…. Per quanto uno possa raggiungere la verità, niente può lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, sincerità, forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza, possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci colpirà all’improvviso.” (349)

Con quest’ultima frase che si ricollega ai discorsi sopra fatti insieme ad Enzo Bianchi.

Inoltre, per una serie di motivi non ho voglia né tempo di aggiungere altro. Se non un abbraccio (uno solo)